Archivi categoria: Riccardo Dal Ferro

Ricomporre l’infranto

treniSono patetico.
«Ti devi accontentare», così mi dicono. «Arrenditi all’evidenza» ripetono incessantemente. Ma come faccio ad arrendermi quando c’è così tanto che manca? Come faccio ad accontentarmi se c’è tutto un universo che fugge dai confini del mio sguardo? Non posso che rincorrerlo, quell’universo che scappa e mi deride. Non posso che cercare di riacciuffarlo, dal momento che le cose importanti stanno sempre al di fuori dei bordi di ogni immagine possibile.
Come Caterina, che mi cammina sulla coda dell’occhio, sempre sfuggente, inafferrabile, per molti versi invisibile. Cammina con la sua gamba slanciata e se ne va fuori dal mio campo visivo, lasciando dietro di sé solo quelle due parole: «Sei patetico».
Hai ragione, Caterina. Sono patetico.
Sto davvero percorrendo il mondo in cerca di uno sguardo che lo ricomponga. E come può un essere dotato di intelligenza sopportare questo universo infranto? Ci sarà pure un’immagine iniziale, un’immagine originale che racchiuda in sé tutti questi frammenti, questi cocci di specchio in cui il mondo si è perduto. Ci sarà pure un obiettivo che non sia limitato da un “fuori”, vero? Sarò pure patetico, ma io so che esiste un modo per ricomporre il tutto, a partire da questa foto, per poi rimettere insieme i pezzi dello spaziotempo.

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Il Leviatano

El_greco,_san_luigi_re_di_francia_e_un_paggio,_1585-1590_ca._02Un giorno un tale fu condannato a bruciare vivo. L’accusa era vilipendio ed era omicidio ciò che l’attendeva. Fu posta una grande pira nel mezzo del paese. Furono convocati sacerdoti da ogni angolo della nazione. E con loro arrivarono governatori e cavalieri. La popolazione tutta si accalcò intorno alla piazza. Il sole gemeva in alto e aspettava di venire imitato beffardamente. Il re stringe la mano della regina. Il tale viene condotto a dorso di un asino. La piazza è gremita. I bambini sono sulle spalle dei genitori. I genitori sulle spalle della Terra. Il condannato ballonzola pigro sul dorso dell’asino. Il boia ha un cappuccio nero. Il cappuccio è pregno di sudore. Le sue mani stringono una torcia spenta. La regina si soffia il naso e guarda il fazzoletto. Gli alfieri della capitale guardano la plebaglia. L’asino mastica l’aria. I suoi denti sembrano i mattoni di un muro sudicio. Il re sorseggia vino. Il condannato viene slegato. Scende dal dorso dell’asino. L’asino viene condotto a trenta passi di distanza dalla pira. Il boia bestemmia in silenzio tra i denti. Dio lo sente e lo ignora. Il re mastica una foglia. Un alfiere legge ad alta voce un messaggio. Prima di farlo srotola una pergamena. La pergamena gliela porge un ragazzetto con gli occhi lucidi. Il popolo scalpita. L’alfiere legge parole di condanna. Il fuoco per ora è solo in potenza. Un accenno del re e quel fuoco diventerà realtà. L’ultima parola pronunciata è “dio”. Dio ascolta e ignora.

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Alla salute di Plutone

Plutoni Summano aliisq. dis Stigyis

caronteTutto ciò che ha inizio nel bosco deve finire nel bosco.
Questo non è nemmeno lontanamente il pensiero di Angelo Manea, imprenditore vicentino di classe cinquantaquattro, due figlie all’università, un figlio morto di incidente, dicevano che l’altro fosse ubriaco ma non s’è fatto manco tre giorni di galera il figlio di puttana, non è il suo pensiero perché al momento non ha altro da fare che correre, correre affondando i piedi nel terriccio umido, la pioggia ha battuto incessantemente il bosco durante gli ultimi due giorni e il sole non poteva di certo trapassare le fronde imponenti, lì il dominio è del buio, dell’umidità, dell’ombra, Angelo Manea non è avvezzo all’oscurità, un imprenditore è abituato a fare le cose alla luce del sole, lui poi che non aveva mai fatto un centesimo di nero in vita sua, una vita spesa dietro la piccola azienda edile portata avanti nonostante non spiccicasse una sola parola di italiano avendo imparato da una vita a questa parte solo il dialetto, quel dialetto grezzo e scontroso che non conosce il passato remoto, e come può una terra di venditori, negoziatori e commercianti sopportare il passato remoto?

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L’uomo-singolarità

Atipicità umane – 7

uomo singolaritàIn mia discolpa posso dire che di storie così è pieno l’universo.
Al centro di ogni disastro, nel cuore di ogni apocalisse c’è un punto di densissima sofferenza, un minuscolo centro in cui si sono accalcate tutte le pesantezze, tutte le negatività, tutte le crudeltà del cosmo. E da quel punto tutto inizia a finire.
Io mi chiamavo Ascanio Coletti, professore di fisica presso l’istituto professionale Alighieri di Bartella. Vivevo da solo, mangiavo da solo e andavo a dormire da solo, senza che questo fosse un peso. Anche se adesso ormai ho qualche milione di anni, all’epoca in cui insegnavo avrò avuto sì e no trentatré anni e tanto amore per ciò che insegnavo. Ma non avevo amici. Avevo colleghi, studenti, conoscenti, amici no, non ne avevo mai avuti. Non pensavo fosse una colpa.
Che cosa posso dire a riguardo? Non dovrei dire nulla, ma a quell’epoca mi si chiedeva spesso: «Perché non hai amici?» e io rispondevo sempre: «Non sono il tipo.» Ed era vero, anche se poi mi guardavano come un alieno. Io non ero il tipo. Non ero il tipo da pizzata in compagnia né da caffè con la prof di lettere. Amavo le mie equazioni di campo, i gatti di Schrödinger, gli elettroni sfuggenti. Mi piaceva lo sport della relatività, la corsa a ostacoli del cervello, i quiz sulla teoria delle stringhe.
Ero solo curioso e mi sarebbe piaciuto rimanere tale.

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L’uomo invivibile

Atipicità umane –  6 

munchMaledetto refuso.
Dante non si era mai messo il cuore in pace. Come poteva un semplice errore di battitura aver cambiato radicalmente la sua esistenza? Come può un piccolo sbaglio segnare in maniera così profonda la vita di un uomo? Come poteva il destino essersi fatto fregare come un pivello?
Dante Scolomanzi era posseduto dall’isteria di chi sa che qualcuno gli ha rubato l’esistenza. Era convinto di essere molto di più di quello che appariva e tutto dipendeva da quel piccolo stupido refuso.
«Ma un giorno vedranno chi è Dante Scolomanzi!»
«Ma chi lo vedrà? Chi?» rispondeva esasperata l’ennesima fidanzata sul punto di lasciarlo. Dante non si dava pace, né dava pace alle persone che cercavano di stargli vicino. Perdeva amori, amicizie e persino fratelli e sorelle, tant’era insopportabile la sua ossessione per il destino che gli era stato sottratto.
«Potevo essere la tempesta che tutti temono, invece sono diventato solo un poca di nebbia, quella che tutti prendono in giro!» ripeteva arrabbiato e nervoso.
«Smettila di fare il melodrammatico» rispondeva la vittima di turno. E puntualmente Dante replicava con violenza, dicendo che nessuno lo capiva, che lui era solo, abbandonato e frustrato. E SBAM!, un’altra porta veniva chiusa e lui rimaneva dentro al suo appartamento a rimuginare sulle occasioni perse.
Dante Scolomanzi non aveva nessuna malattia.

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Il neonato atomico

Atipicità umane – 3 

Si sta muovendo!Richard_Lindner_-_Boy_with_Machine_(1954) (2)

Quel piccolo paffutello figlio di puttana si sta muovendo! Guardatelo, come gattona innocente in mezzo alla strada deserta, facendo finta di nulla. Guardatelo, morbido e tenero come solo gli angioletti sanno essere.
Ma quel tizzone d’inferno in carne soffice e ossa frolle non ha nulla d’angelico.
È il figlio del demonio, è il parto del diavolo, anche se il diavolo in questo caso è la povera Mariagrazia Pagnaschi, moglie del senatore Augusto Svanzi, eminente autorità del nostro piccolo povero paesino colpito dalla peggior calamità dell’universo.
Mentre quel mostro si muove, tutto il centro è un fuggi-fuggi, uno sgombra-sgombra, per evitare di finire in mezzo alla deflagrazione imminente. Un ginocchietto alla volta, una manina dopo l’altra, quell’infante apocalittico avanza, i ciuffi biondi che gli cingono il cranio vellutato, la bocca che sbrodola bava e risatine, sembra un qualsiasi bimbo di qualsiasi pubblicità di pannolini, e invece è la fine di tutto, la distruzione del mondo, il Ragnarök delle nostre speranze!
Il neonato atomico avanza, ma nessuno sa che cosa fare.
Eppure nulla aveva fatto presagire una tale sventura. La signora Pagnaschi era una mamma ammirata da tutti, le ecografie non avevano dato cenno di pericolo, la gestazione era stata serena e amorevole come ci si aspetterebbe da una famiglia così perfetta.
Ma ora il bimbo termonucleare avanza e l’esercito studia il da farsi.

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La Donna espansa

Atipicita’ umane – 2
botero_principessa-margaretA un primo sguardo, nessuno direbbe che Virna abbia acquistato peso.
La sua ferrea dieta e l’asticella della bilancia continuano infatti ad andare perfettamente d’accordo, e Virna rimane la regina indiscussa della magrezza, a Tol Defferate, piccolo paesino montano sul confine di alcune non meglio identificate regioni d’Italia.
«Sei un ramoscello, Virna cara!» la virgolettano le amiche, quando passa con gamba snella e tacco rabdomante per le vie del paesino.
«Ancora un poco e ti si dovrà indovinare, mica incontrare» l’apostrofano i vecchietti prendendosi una pausa dalla nullafacenza pensionistica a ridosso di cantieri in perenne rallentamento.
A Tol Defferate, con le sue cinquecentosedici anime, Virna è un’autorità in fatto di salute e forma fisica. Diete prima proteiche e poi vitaminiche, prima vegane e poi rossosangue; integratori di secchezza e dispensatori di energia; costolette d’insalata e poi foglie d’agnello. Virna Maldestri segue pedissequamente la ricetta stavolta di quel guru e l’altra di quel santone, poi del nutrizionista RAI per finire dell’ultimo libro sull’alimentazione birmana. Il sorriso di Virna Maldestri cresce in proporzione al ritirarsi della carne, del grasso, delle curve.
«Se ti metti di profilo neanche ti si vede» ammiccano gli uomini con un filo di eccitazione nella voce.
E Virna non ha acquistato nemmeno un grammo, nonostante tutto.
Dico nonostante tutto perché le vicende che sono capitate a Tol Defferate negli ultimi giorni, e dei quali con poca tranquillità mi accingo a raccontarvi, potrebbero dimostrare l’esatto contrario.
Io me lo ricordo, quando tutto ha avuto inizio. Ce ne stavamo da Sbarbie, al secolo Romano Mefisti, il parrucchiere di Tol. Lui tagliava e noi chiacchieravamo della sconfitta del Defferate per sette a uno contro il Patriarca. Lui radeva e noi commentavamo le natiche della Pimbini, sacerdotessa delle curve di Tol a cui noi tutti dedicavamo le nostre preghiere virili per tanta abbondanza. È stato allora che ho visto una guancia di Virna Maldestri fare capolino dalla porta del negozio di barbiere. Avete letto bene: una guancia. Non Virna, nella sua snella interezza, no. Per un solo secondo la porta ha sbattuto e ha mostrato il fugace profilo di una guancia, quella inconfondibile macchiata di phard fucsia di Virna. Una guancia, vi rendete conto? Come un’apparizione aliena, come le acque del Mar Rosso che si spaccano, come i marziani che sbarcano a Busto Arsizio. Continua a leggere

L’uomo sradicato

Le atipicità umane
Il cosmo è il luogo eccentrico per eccellenza e l’uomo ne incarna l’eccentricità. Una serie di ritratti parossistici, una lunga fila di individui impossibili che popolano il mondo dimostrando che la normalità è una cosa molto diversa da ciò che intendiamo. Gli uomini atipici invaderanno l’universo, come anomalie divertenti o terribili, interessanti o inaccettabili, aprendo nuove stradeper raccontare la vita, la fisica e il cosmo. L’uomo atipico è ovunque intorno a noi. L’uomo atipico è ognuno di noi.
Jacek Yerka

L’uomo sradicato

Non era che non avesse i piedi per terra.
Anzi, vi dirò che Erminio Castrelli era un tipo davvero concreto, uno con il quale mica si poteva scherzare. Era uno con pesanti zavorre che lo tenevano ben piantato alla realtà, amante della logica e della matematica, esperto di ingegneria e perfettamente a suo agio nelle più solide convinzioni.
In paese tutti lo guardavano con ammirazione, ci si rivolgeva a lui quando si trattava di risolvere qualche divergenza che richiedesse un giudizio logico e imparziale. La sua era una vita guidata dalla pianificazione e da un ritmo esistenziale minuziosamente prestabilito.
Erminio Castrelli era l’ultimo da cui ci si aspetterebbe qualche colpo di testa.
Aveva cinquantatré anni quando tutto cambiò improvvisamente. Nessuno sa spiegarsi che cosa sia capitato, quel che sappiamo è che d’un tratto Erminio ha messo sottosopra ogni cosa, letteralmente.
Tutto ha avuto inizio un mattino di settembre nel negozio del panettiere, dove Erminio si recava alle ore 8.45 in punto per acquistare una baguette e due francesine. Aveva scambiato convenevoli con Enzo il fornaio e la signorina Vezze, l’estetista di via Portello, discutendo del meteo e prevedendo che nel pomeriggio la pioggia si sarebbe intensificata. Pagò i suoi due euro e dieci centesimi, ma non finì per salutare come sempre tutti i presenti per prendere la via d’uscita. Non quel mattino.

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Scacchimatti

scacchiA raccontar gli scacchi ci si perde la testa, dice il re decollato.
E raccontarvi com’è che il sovrano ha perduto il cranio puntuto, cristianissimo bardato di croce cattolica bucolica? Com’è raccontarvi la guerra de’ scacchi, scrivendo senza malizia il vicendevole massacro de’ pedine innocenti?
C’è il re-scacco da metter nel sacco, matto direte, e invece no: pigro e goffo, di passo in passo girovago tra i quadri, ma non sa nulla di musei. Eletto da nessuno, perfetto per nessuno, sovrano per divin diritto, ma dir retto è dir troppo. Balza per arroccarsi, ma non divampa d’emozione per i Rolling Stones, come quelli che al rock arsi. Per salvarsi la pellaccia mette tutti in allerta, e questo è il realismo del re stracco: sacrifica persin la sacra fica per salvar il pisello regal.
C’è la regina-scacco, temuta e muta, ritta e zitta, mossa da estinto materno, pronta a divorare pure i figli. Lei non allatta ma allotta, non infonde amore ma diffonde timore. Eppur, con tutta quest’amazzone dominanza, ancor se ne sta all’ombra del sovrano coglione, in attesa dello scacco scemo, puntuale come l’arrocco.

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Umano è

lenzuolaNei suoi occhi ci ritrovo tutto.
Mi ci ritrovo, come fossi un riflesso a figura intera, ma non solo fisicamente parlando. Immaginateci, ora: abbiamo le teste adagiate sullo stesso cuscino, nel perfetto silenzio che c’è dopo l’amore. Mi ci ritrovo, nei suoi grandi immensi vastissimi occhi, e quasi ci cado dentro, precipitandovi.
Se ci vedeste, senza alcun dubbio non capireste. Io e lei siamo sospesi in una dimensione parallela, e dobbiamo tenere bene a mente che le dimensioni sono parallele in quanto non si incontrano mai. La sua iride m’irride, con quei colori sfumati, che non sono mai verde, mai giallo, mai azzurro, ma continuano a mutare. I miei, invece, sono neri come il buio, lo sono sempre stati, ma per la prima volta mi pare riescano ad abbinarsi bene ai colori irriconoscibili di questa stanza.
È qui, nella nostra dimensione sconosciuta, che le chiedo: “Che cosa è umano?”
Non sono certo di averle pronunciate queste parole. Nonostante alle mie orecchie siano sembrate un urlo, il mio cervello mi suggerisce di non averle fatte uscire mai di bocca. Ma lei risponde, eccome se risponde, e la sua lingua mi pare per la prima volta meno straniera.
Umano è, dice, umano è ciò che diffida.
Diffida per la paura di ammettersi diverso, per la necessità di somigliare alle proprie immagini, persino quelle più estranee. Diffida, perché non sa che farsene di un amico, e perciò ha bisogno dei nemici. Umano è tutto quello che ci ha chiusi qui dentro, per non farci sorprendere insieme là fuori.

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